Da che mondo e tempo gli oggetti prestano indiscriminatamente il fianco alla mano dell’uomo. Succede ogni giorno, ad ogni ora della paga giornaliera smazzettata sull’unghia 24 volte, diurna o serale che sia, poco importa. Non paiono opporre alcuna forma di resistenza, di più, la stessa resistenza pare un concetto riducibile a dettaglio insignificante, ad insulsa dabbenaggine frutto di qualche inutile speculazione mentale se riferita agli oggetti. Sono figli dell’invenzione ma non hanno anima né sangue propri, quindi mancano di diritti e ancor prima di relazioni possibili, scaturibili, allora perché mai dovrebbero opporsi all’uomo. D’altra parte avete mai letto del suicidio tentato da uno spremiagrumi per la girandola di avvitamenti cui viene sottoposto? O della consensuale richiesta di divorzio tra un mouse e la tastiera di un computer dopo anni di onorato concubinaggio? No, certamente. E gli avvocati presenti non avranno difficoltà a confermarvelo. Io pure, che sono avvocato di breve corso, non posso far altro che dargli ragione. Discorso chiuso, caso chiuso perché mai aperto, quindi. Gli oggetti restino pure al loro posto, al posto da altri deciso per loro. Ottusi aggeggi, arrendevoli come sempre sono stati ed in balia delle nostre voglie. Non potrebbero fare altrimenti. La stilo di pregio rintanata entro una comoda bocchetta, la penna da pochi centesimi riversa invece sul tavolo priva di protezione, le posate ammonticchiate l’una sopra l’altra perché l’ossigeno ha altri a cui pensare, la caffettiera a troneggiare in mezzo ad un vassoio o lasciata al fondo di un lavabo in attesa della toeletta, e così via. Solo lo scopo ed il fine a presiedere ogni loro movimento, con l’utilità a correre su di un corpo rigorosamente senza fiato e gambe.
Eppure i pittori da sempre si ostinano a volerli ritrarre, questi oggetti, con tale foga ed abnegazione, con tale arrogante cocciutaggine, fino quasi al punto di dolersi ed inveirvi contro per l’incapacità di questi ultimi a restare fermi in posa per tutto il tempo necessario a fissarli sulla tela. Quasi si muovessero per un improvviso crampo ai muscoli dovuto alla lunga imposizione della rigidità, al pari di un modello sfinito. Ma se gli oggetti non hanno sangue, se non hanno il folto acceso della spinta pilifera, se non soffrono la stanchezza, se non combinano cromosomicamente con il sudore, i sorrisi od il pianto dell’uomo, cosa scatena in chi li ritrae tanta devozione e pervicace fratellanza? Il semplice gusto del grottesco, dell’ingenuo divertissement? Puro esercizio di stile, nonsense marcato dal talento? O c’è dell’altro? Che sia quel ritorno alla vita insito nelle cose, in tutte le cose, anche le più inerti, spontaneo ed allo stesso tempo coniugato al paradiso di uno sguardo che in loro si specchia e vi vede attraverso? E’ sorprendente che alcuni uomini abbiano creduto di poter stabilire un rapporto vitale, quasi erotico tra sé e gli oggetti divenuti per tale via consorelle o amanti mai sazie, facendo semplicemente ricorso alla tavolozza dei colori. Altro che nature morte, la natura morta non esiste, parola di Cézanne, è la stessa pittura ad essere natura nella sua più ampia ed omnicomprensiva accezione, fino a superare gli angusti confini cui viene costretta dalla semantica, nulla può e deve escludersi, pena un inganno terribile che si compie a danno dei nostri sensi. Lui non fu certo l’unico a pensarla così, anche se il suo modo di esprimersi, tra una reprimenda vomitata nel privato del suo studio ed una pubblica ingiuria scagliata contro il mondo con la forza di mille giavellottisti, resta ancora oggi per certi aspetti insuperabile. I migliori esempi della figurazione contemporanea sono persino arrivati a dimostrare attraverso le loro opere dell’avvenuto azzeramento di distanze tra quanto è animato e quanto non lo è, nell’atto della sua espressione in arte. Espressione esaudita come un desiderio che si abbevera del proprio succo creativo man mano che la polpa s’ingrassa a spese del talento. Il cannibale che è in noi. Libagioni ricche di sostanza faranno allora aumentare a dismisura la sete dell’artista, boli di cibo scenderanno veloci, giù, fino alle caviglie, per risalire infine ai polpastrelli, dove dipingere si traduce in una tecnica del corpo e della mente insieme.
Ecco il punto. E’ consentito dare degna figurazione degli oggetti a chi non si sia limitato a raffigurarli, avendoli vissuti pienamente. A chi abbia intrecciato con essi una relazione di solida mutualità. La forma avrà allora calore e colore equamente sparsi sulla tela, per mostrare come le cose si fanno cose senza alcun rapporto di subordinazione necessaria nei confronti dell’uomo. A tale sintetico risultato è pervenuto, con un pizzico di sobria follia, Roberto Pagnani, il cui atto creativo e compositivo procede non dalla conoscenza artificiosa delle sue leggi, ma da una complicità illuminata e per nulla scaramantica verso quell’universo di presenze che siede con noi, che con noi quotidianamente mangia la stessa polvere. Attraverso il gesto del pittore, placide caffettiere accomodate su sghembi-lembi di tavolini, si aprono alla confessione più disparata. Come un balsamo contagioso il disegno si fa tramite dei loro ricordi più antichi che le vide ergersi a troni per vecchi re, reclinarsi dolcemente come belle conchiglie pettinate dalla salsedine o dilatarsi in chiglie prosperose. E’ il passato degli oggetti, la possibilità di una propria memoria non ridotta a silenzio né sottomessa. Ma pure il loro futuro. La caffettiera si anima, si sbraccia raccontando la sua storia, cambia di fattezze pur restando sul tavolo, e su di esso germoglia la concezione della linea e dei pieni come attributo positivo e proprietà caratteriale della materia non carnale di cui è fatta una comunissima moka. Il silenzio non è il fatale destino cui gli oggetti devono piegarsi, ma una pausa del respiro tra una frase e l’altra esattamente come lo è per noi. Roberto Pagnani, nei suoi fondali puntualmente color crema introduce il rilievo di una buffa macchinetta capace di tollerare con la stessa naturalezza le conversazioni tra umani seduti attorno a lei, ed il fuoco sopra cui viene fatta portare ad ebollizione. Ma non c’è nulla di visionario in tutto questo, al contrario è presente la tanta concretezza che caratterizza il ciclo di opere qui in esposizione, la concretezza dell’attenzione verso il quotidiano, dell’ascolto che avanza ed indietreggia senza freni come una fisarmonica al culmine della sua passione sonora, del pensiero che non si accontenta di abitare il solo visibile a lui consanguineo. E tutto ciò che dipinge è in risposta a questi stimoli. Il caffè rimane una curiosa bevanda da gustare da soli o in compagnia, la caffettiera quel prezioso alleato che te ne fornisce la possibilità. Nulla cambia quanto alle nostre abitudini. Per tutto il resto, beh, per tutto il resto dipende davvero da noi e dalla nostra voglia di non perderci in una semplice tazzina di caffè ma di trovarvi, magari solo per gioco, un intero mondo dentro tutto da scoprire. Con queste tele Roberto ha intrapreso il suo viaggio. E voi?
domenico settevendemie.